Gli
ultimi dati Invalsi ci dicono che il gap di competenze tra allievi del
Centro-Nord e del Meridione si sarebbe attenuato, ma non illudiamoci: il
divario strutturale rimane alto, fino a 40 punti, e non potrà mai risolversi
spontaneamente.
Marcello
Pacifico (Anief-Confedir): servono interventi mirati, come introdurre un
organico maggiorato di docenti, ridurre gli alunni per classe, garantire il
tempo pieno e un miglior orientamento, puntare su forme valide di alternanza
scuola-lavoro come quella di Bolzano o il modelle tedesco. E laddove mancano le
aziende si investa sul patrimonio culturale e turistico.
Al di là dei trionfalistici e superficiali
commenti forniti dalla stampa nei giorni scorsi, a seguito della presentazione
dei dati Invalsi di rilevazione degli apprendimenti,
il divario di competenze scolastiche tra gli alunni italiani del
Centro-Nord rispetto agli alunni pari età del Sud si è solo leggermente
attenuato. C’è davvero poco di che essere soddisfatti. Perché il gap rimane alto:
“per colmare le differenze – ha commentato con
lucidità “Repubblica” - c'è ancora tanta strada da percorrere. Sono infatti
25 i punti che separano in Matematica i ragazzini delle regioni settentrionali
da quelli delle regioni meridionali. Divario che schizza a 33 punti se si
mettono a confronto i ragazzini friulani con i coetanei nati in Calabria. Che
salgono a 40 se si confrontano i risultati dei quindicenni che studiano in
Sardegna e quelli della provincia autonoma di Trento: 180 contro 220 punti”.
Il divario si fa
sentire, ha osservato Tuttoscuola, soprattutto in “terza media e
aumenta nel secondo anno delle scuole secondarie superiori, dove a essere
penalizzati (e questa è una conferma in negativo) sono gli istituti tecnici e
professionali del Sud e delle Isole”. Sempre la rivista specializzata ha
rilevato che “emerge, ancora una volta, una divisione, se pur un po’ attenuata
rispetto al passato, tra l’Italia del Centro-Nord e quella meridionale. Poiché
i dati sono campionari e, tutto sommato, hanno avuto un contenuto cheating
(distorsione per interventi esterni), si può ritenere che quanto emerso dalle
6.610 classi campione sia sostanzialmente affidabile e veritiero”. E i dati
Invalsi, che servono non a giudicare i docenti, ma a trovare strumenti più
adeguati per potenziarne l’azione, ci confermano che servono dei rimedi.
Anief torna a ripetere che ci troviamo
di fronte ad un divario strutturale. Che per sua natura, quindi, non può
risolversi spontaneamente. I numeri di questi giorni non fanno altro che
certificare gli investimenti poco mirati che lo Stato ha riservato alle Regioni,
penalizzando quelle meridionali. Basta ricordare che gli ultimi dati ufficiali
ci dicono che in Sicilia la mancanza di risorse e di mense scolastiche ha fatto
sì che il tempo pieno nella scuola primaria è stato attivato solo per il 3 per
cento degli alunni; mentre il tempo pieno in Lombardia è presente nel 90 per
cento delle scuole primarie.
Il risultato di questa discrepanza di
offerta formativa è che al termine dei cinque anni di scuola primaria i bambini
della Sicilia studieranno 430 giorni in meno, pari ad oltre 2 anni scolastici
persi. Se a questi dati, che non hanno bisogno di commenti, aggiungiamo la
mancanza di investimenti per combattere la dispersione e migliorare
l'orientamento scolastico, risulta tutto più chiaro. Perché al Sud e nelle
Isole alle “tare” del forte decremento demografico e del processo migratorio, si
aggiunge quella dell’alto tasso di abbandono scolastico: alle scuole superiori
vi sono province, come Caltanissetta e
Palermo dove la dispersione supera il 40% di iscritti al primo anno.
E nella “top
ten” di province con più alunni dispersi delle superiori figurano subito dopo
Ragusa, Sassari, Cagliari e Oristano. Non a caso, la Regione italiana che nel
quinquennio 2009/2014 ha in assoluto perso più studenti della scuola secondaria
superiore è stata la Sardegna: 6.903 allievi, pari al 36,2%. Va poi ricordato che quasi sempre sono ragazzi che diventano Neet:
il fenomeno degli oltre due milioni di giovani tra i 15 e i 29 anni che
non studiano e non lavorano (uno su quattro di quella fascia di età), ha le sue
radici principali nell’abbandono scolastico. Si tratta di constatazioni e numeri che fanno ancora più
impressione, dal momento che vengono resi pubblici proprio mentre l'UE continua
a chiedere ai Paesi membri di raggiungere nel 2020 un tasso medio nazionale di
abbandono non superiore al 10%. La situazione è effettivamente da allarme
rosso. Occorre agire e anche in fretta.
Le indicazioni che l’Anief dà al Governo
italiano è quella di farlo, imponendo importanti correzioni formative, in
quelle zone geografiche dove si riscontra il maggior tasso di abbandoni
scolastici e di Neet: è lì che occorre l’assegnazione di un organico di docenti
maggiorato. “Perché in quelle aree –
spiega Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir
– non bastano gli stessi insegnanti
previsti per la didattica standard. Appurato che in determinate zone del Paese sono
concentrati studenti con maggiori difficoltà di apprendimento scolastico e tendenti
a lasciare i banchi, è evidente che serva una maggiore presenza di educatori e
formatori. Da assegnare - per le materie specialistiche, per le lingue e per i
casi più difficili - anche con la modalità della compresenza”.
“Ma
non solo – continua il presidente Anief – perché per rendere l’azione più efficace è indispensabile ridurre il
numero di alunni per classe. Adottando, pure in questo caso, una deroga
rispetto ai ‘tetti’ imposti a livello nazionale, che alle superiori arrivano a
sfiorare i 30 iscritti per classe. Solo a queste condizioni, gli interventi
compensativi, mirati al potenziamento delle capacità degli studenti, possono
avere buone possibilità di riuscita”.
Per l’Anief è fondamentale, quindi,
ricondurre le classi tutte al tempo pieno o al monte ore massimo giornaliero
espandendo anche le attività progettuali e a supporto della didattica. Alle
superiori serve poi un modello rinforzato di alternanza
scuola-lavoro. Come quello di Bolzano o tedesco, giustamente citati dall’on. Simona
Malpezzi, responsabile nazionale Scuola PD: in un’intervista
a Orizzonte Scuola, l’on. Malpezzi parla di “‘concomitanza’ scuola-lavoro”
perché “il punto forte è nel fatto che per il 75% del loro tempo trascorso in
azienda i ragazzi sono affiancati da un formatore che segue tutti i momenti
della loro attività. Si tratta di un cospicuo e lungimirante investimento
dell’azienda, che ha tutto l’interesse a formare dei giovani che potrebbero poi
un domani fare parte del proprio staff”.
In Italia la realtà è ben’altra: a
proposito delle forme adottate sino ad oggi, compreso l’ultimo testo
legislativo del 2011 che ha introdotto la possibilità di assolvere l’obbligo
scolastico, dai 15 anni di età, nella modalità in apprendistato, Tuttoscuola ha
ricordato che sono state tutte “poco incoraggianti: pochi i contratti in
apprendistato e pochi i percorsi di alternanza scuola lavoro, che è poco
presente persino nel piano dell’offerta formativa (POF) delle istituzioni
scolastiche che pure la prevedono nel proprio curricolo”.
“Eppure
– commenta ancora Pacifico – quella
dell’apprendistato sarebbe la strada madre per vincere la disaffezione dai
banchi di scuola e la piaga della disoccupazione. Dovrebbe però coinvolgere
seriamente tutti i giovani a partire dai 15 anni, non solo sulla ‘carta’ come
avviene oggi, attraverso degli stage veri e remunerati. Più di qualcuno ha
obiettato che se mancano le aziende o sono in crisi, scenario tipico del Sud,
ma non solo, per gli studenti è ancora difficile trovare spazio anche come
stagisti. Il vero problema è che sono le stesse aree dove è anche più
modesta la propensione all’investimento. Anche
in questo caso lo Stato deve intervenire con decisione: puntando forte – conclude
il presidente Anief – sul patrimonio
culturale e turistico, unico al mondo, che detengono proprio quelle aree italiane
dove oggi abbondano gli studenti poco competenti, inclini ad abbandonare la
scuola e probabili futuri disoccupati”.