LORENZO
JOVANOTTI
Ci sono coppie di innamorati,
genitori con i loro bambini, “ragazze magiche” che festeggiano l’addio al
nubilato e gruppi di sessantenni che hanno dichiarato addio alla gioventù, ma
solo per tornare bambini. C’è una mamma che, per tutto il concerto, spalle al
palcoscenico, con gli occhi lucidi trasforma in un A te ogni singola parola di ogni
singola canzone per la figlioletta, che la ascolta come si ascolta una fiaba.
Come se fosse stata scritta per lei in quel preciso istante … Al 105 Stadium di
Rimini, dove Jovanotti ha inaugurato il tour “Lorenzo nei Palasport 2015/2016”,
si è dato appuntamento un pezzo d’Italia, l’Italia vera, quella della gente
normale che si
inventa la vita giorno per giorno e che però non ha smesso di sognare, vuole continuare a credere nella
bellezza e nutrire l’ambizione di essere, proprio per questo, “immortale”,
come recita una delle canzoni più
belle del doppio album Lorenzo 2015 CC..
Lorenzo, cosa ti passa
per la testa quando ti presenti davanti a un pubblico che ha fatto delle tue
canzoni la colonna sonora della sua vita?
«Mia moglie dice che non mi godo
mai niente. E ha ragione: in me prevale sempre la voglia di meritarmi quello
che ho conquistato, di trasformarlo in altri progetti. Mi inorgoglisce che la
gente abbia scelto di venire ad ascoltarmi, ma alla fine cerco soltanto di fare
il mio mestiere: essere un cantante pop che arriva al cuore.
Quando esco davanti al pubblico,
il mio primo pensiero è di lasciare un segno».
Proprio per l’importanza
che assumono le tue canzoni, ti senti investito di una responsabilità sociale?
«Non sento una responsabilità
maggiore di quella che ha qualsiasi uomo in ciò che fa. Confinerebbe con
l’autocensura, pericolosa nel mondo della creatività. La responsabilità
riguarda più il cittadino Cherubini che l’artista Jovanotti».
Ma le canzoni hanno il
potere di cambiare la realtà?
«Hanno uno spazio importante
nella vita delle persone; nel mio caso sono state utili ad acquisire coscienza
di me come persona. Ho scoperto,
ad esempio, che cos’era l’apartheid ascoltando musica, non un telegiornale. Ma
oggi, che siamo immersi in un flusso costante di informazione, la canzone non
ha più quel ruolo informativo».
«Non lasciare le tue
labbra senza baci, stasera»: nelle tue canzoni è costante l’invito a vivere
l’esistenza fino in fondo, al carpe diem …
«È vero, ma non sono così legato
a questo tema: è una tendenza che si è rafforzata negli ultimi anni, in cui ho
perso all’improvviso persone care … Quando si è giovani, non si contano i
giorni che rimangono; quando invece vedi che il tempo sfugge, che qualcuno
muore anche quando non ne aveva l’età, diventi più frenetico rispetto al
consumo dei tuoi respiri. E non è necessariamente un bene. Tema centrale di
questo ultimo disco sono le relazioni, ogni brano è rivolto a qualcuno, la
prima persona resta in ombra … Ed è un passaggio
significativo verso qualcosa di
nuovo, che potrà avere uno sviluppo in futuro».
Questa apertura al “noi”
è essenziale nella canzone Gli immortali, che non a caso è
diventata anche un film che sarà trasmesso da Sky …
«Infatti utilizzo la prima
persona plurale».
Mi sembra che tu abbia
scritto la tua La
storia siamo noi...
«Anche De Gregori lì usa il
plurale, come Vasco in Siamo solo noi, come in We are the World. La storia siamo noi mi piace a tal punto che il
paragone al momento mi sembra irriverente.
Gli immortali è stata ispirata dall’affetto
della gente, il cui sguardo riesco a volte a incrociare dal palco, facendole
diventare persone. Mi viene da pensare che la ragione profonda di tutto questo
mondo che ho costruito sia stata fare contenta mia mamma e “provare a
interpretare i sogni di mio papà”… Papà si aspettava un percorso tradizionale:
laurea, un bel posto in Vaticano, dove lavorava come impiegato …
In realtà sapevo che, dentro di
lui, era felice di ciò che facevo».
E tua moglie e tua
figlia come vivono il tuo successo?
«Bisogna chiederlo a loro. Ho
l’impressione che sia un bell’ingombro, un gigantesco peluche che invade la
casa, una enorme giraffa rosa in salotto. Per mia moglie forse è meno invasivo,
nella vita sociale di mia .glia pesa un po’ di più: a volte si lamenta di non
essere considerata per quello che è, ma in quanto mia figlia …».
Nelle tue canzoni sono
disseminate tracce dell’esperienza del dolore, insieme al messaggio che non
bisogna restarne irretiti.
«Non dobbiamo farlo diventare una
condizione, come pure il contrario del dolore. Ho visto tanta gente trasformare
la sofferenza in un pretesto per smettere di vivere. Per quanto possa chiamarmi
Jovanotti e cantare le canzoni che canto, il senso del tragico è fondamentale
nella mia vita. Quando ho perso il mio fratello maggiore, la colonna morale
della famiglia, mi sono sentito come un tavolo senza una gamba, ho cominciato
un lavoro interiore … Il dolore non va rimosso, va tenuto lì: è una novità, e
le novità vanno accolte. Ho la fortuna di essere aiutato dalla forza catartica
della musica».
È lo stesso
atteggiamento che dobbiamo assumere dopo i fatti di Parigi?
«Prima di tutto c’è bisogno di
una leadership dotata di una forte coscienza e di uno sguardo a lungo termine,
che non strumentalizzi
l’accaduto. Personalmente, sono convinto che si tratti di una storica questione
di terribile, complessa e nuova criminalità organizzata, da non affrontare in
chiave religiosa: non siamo dentro una scontro di civiltà o di religioni, non
stiamo vivendo un conflitto che oppone noi cristiano-giudaici al mondo
musulmano. Non è questa la via da intraprendere. I musulmani sono un miliardo e
mezzo, non una setta. Mi rifiuto di credere che siano tutti assetati di sangue,
sebbene ci sentiamo distanti da loro, da una cultura che assegna al proprio
Libro fondamentale il ruolo di Codice civile e penale. Di certo, questi fatti
devono rafforzare il nostro senso della comunità e spronarci a difendere le
nostre conquiste, tra le quali una delle più importanti è la libertà di culto.
Parigi non è una città, è un’invenzione; è frutto dell’intelligenza dell’uomo;
è la possibilità di viaggiare .no a Capo Nord senza dogane, di studiare
all’estero con Erasmus; è un simbolo di libertà, il contrario
dell’integralismo: questo è il modello che dobbiamo imparare a difendere.
Magari cercando di renderlo ancora più inclusivo».
Scrivi canzoni d’amore
da più di vent’anni: dove trovi l’ispirazione?
«Uso una tecnica di
visualizzazione. Mi chiedo: a chi sto cantando questa canzone, che cosa gli
voglio comunicare? Immagino persone in carne e ossa. E poi penso che la musica
possa migliorare la storia della gente, che sia una sorta di utile finzione. Nell’atto
della scrittura mi piace ricuperare lo spirito delle Laudi del Duecento. Il
Laudario di Cortona, la mia città, è uno dei più antichi d’Italia. Ecco, voglio
che la canzone sia una lode, anche per esprimere una forma di resistenza a un
mondo colmo di parole negative, governato da
esaltazioni o all’opposto da
insulti. Una canzone romantica ritaglia uno spazio di emozione e allegria. Mi
piacciono le città dove si vedono le coppie che passeggiano, si baciano. Le mie
canzoni
sono degli innamorati che passeggiano
in un viale alberato».
In fondo è coerente con
la filosofia di Io penso positivo …
«Non è che io non pensi negativo,
ma scelgo di cantare “Io penso positivo”. Perché mi viene meglio, perché la
ritengo una sfida più avvincente, perché ci credo, e perché “Io penso negativo”
lo dicono in molti».
In Sabato c’è un’efficace
definizione dell’indole degli italiani: «Sembra tutto perduto e poi ci
rialziamo».
«Siamo sempre al limite, e solo
allora tiriamo fuori l’inventiva. L’esempio madre sono i Mondiali di Spagna
dell’82 Quell’estate avevo 16 anni. Segna la fine degli anni di piombo:
l’Italia sembrava spacciata, sporcata di sangue. Ricordo che mio padre tornava
a casa con i vestiti impregnati dei gas lacrimogeni … Poi arrivò il Mondiale, e
l’Italia seppe risorgere. Quell’estate me la porto nel cuore, è un pozzo
inesauribile a cui continuo ad attingere. Questa è l’Italia,
che non può mai rinunciare a cadere e a rialzarsi. Noi siamo un pontile nel
Mediterraneo, per questo è assurdo qualsiasi atteggiamento nazionalista: non
siamo una nazione, ma un popolo, che è molto di più di una nazione».