EDIZIONI LINDAU
Torino, 7 ottobre 2014
PAOLO VI
Un papa nella bufera
una biografia di
Yves Chiron
In un pontificato
orientato alla misericordia, alla mitezza e alla comunicazione, il 19
ottobre,
alla conclusione del Sinodo sulla famiglia, papa Francesco ha scelto di
beatificare proprio il papa che
istituì il Sinodo dei vescovi, che si spogliò di ogni fasto pontificio, che
rivoluzionò l'allora CEI, che avviò il dialogo ecumenico con il primo viaggio
in Terra Santa e con l'abbraccio al Patriarca ortodosso di Costantinopoli.
«Tale beatificazione,
nel contesto sinodale, costituisce un importante segno di collegialità»
ed è il simbolo della
volontà di papa Francesco di dare nuova dignità, e forse seguire, gli atti del
Montini moderno, aperto e innovatore.
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Sotto
il pontificato di Paolo VI (1963-1978) la Chiesa cattolica fu attraversata da
sconvolgimenti considerevoli, visse una sorta di rivoluzione. Se in alcuni
ambiti (in particolare il celibato dei preti, l’elezione del Papa, la
regolazione delle nascite, l’aborto), nonostante le insistenti richieste di
riforma, il magistero mantenne una posizione tradizionalista, in altri (la
liturgia, le relazioni con i non cattolici e i non cristiani, i rapporti con il
mondo e la società) furono fatte e dette cose che vent’anni prima, sotto il
pontificato di Pio XII, sarebbero state impossibili.
Il
Concilio Vaticano II, deciso e iniziato da Giovanni XXIII e concluso con Paolo
VI, costituì il vettore essenziale di questa rivoluzione. Paolo VI è stato
il Papa che portò a buon fine il Concilio, senza dirigerlo veramente, ma
riuscendo, su certi punti, a imprimere il suo marchio e la sua autorità. E ha
dovuto farlo in una «Chiesa scossa» (Église ébranlée), per riprendere
l’espressione di Émile Poulat.
È
falsa l’immagine di una Chiesa cattolica che sarebbe entrata in crisi (crisi di
identità, crisi di fede, crisi di vocazioni, rimessa in discussione delle
strutture e delle discipline) in seguito al Concilio Vaticano II. La crisi
cominciò a manifestarsi prima del Concilio che non fu in grado di contenerla
nell’immediato. Per certi aspetti, il Concilio ha funto da rivelatore della
crisi diffusa nella Chiesa e il modo in cui è stato applicato non ha fatto
altro che amplificarla.
All’indomani
della morte di Paolo VI, facendo un primo bilancio del suo pontificato, Émile
Poulat scriveva: «È morto senza aver dominato questa crisi dogmatica,
disciplinare e spirituale, senza che i suoi appelli alla fraternità e alla pace
abbiano potuto scongiurare la violenza dei conflitti fra i popoli».
Gli
ultimi anni del suo pontificato furono piuttosto cupi. In Italia era diffuso un
gioco di parole: Paolo Sesto, Paolo mesto. Se da un lato i primi grandi
viaggi, in particolare quello in Terra Santa nel 1964, avevano suscitato
entusiasmi notevoli in tutto il mondo, le difficoltà che dovette affrontare
incupirono il paesaggio e il personaggio. Un anno dopo la sua morte, il
successore ricorderà il pontificato di Paolo VI come «un quotidiano martirio di
sollecitudine e lavoro». Il grande monumento in memoria di Paolo VI, inaugurato
nel 1984 a Brescia, città in cui il Papa aveva trascorso l’infanzia e la
giovinezza, è l’immagine di questa valutazione. La statua, opera di Lello
Scorzelli, rappresenta Paolo VI con la testa bassa, come schiacciato dal peso
del suo ruolo, sostenuto unicamente dal grande crocifisso su cui si appoggia, a
cui quasi si aggrappa.
Eppure,
queste immagini doloriste del pontificato non basterebbero a definirlo.
Edizioni Lindau, Torino 2014 | in libreria dal 10 ottobre | pagg. 448 | euro 32,00
Titolo originale Paul VI. Le pape écartelé. | Traduzione dal francese di Valeria Fucci