Dal 1° ottobre 2014
Si tratta di una decina di cartoni preparatori per affreschi, grandi al vero e colorati a pastello, altrettanti disegni e bozzetti e una tavola a olio, tutti preliminari ad una grande opera realizzata nell’estate del 1939: gli affreschi di due ambienti del monumentale Castello dei Cavalieri a Rodi, la Sala del Pane e la Sala della Famiglia. I due cicli costituiscono una delle opere estreme dell’arte del Ventennio, ma diversa per lirica astrazione da tanto brutale muralismo di propaganda.
Non a caso il progetto nacque per il più ridente angolo del nostro effimero Impero coloniale, l’incantevole isola di Rodi, che fu sede del Governatorato italiano del Dodecanneso dal 1912 al 1943. Il fascismo aveva modernizzato Rodi eleggendola a vetrina turistica e paragone d’eccellenza architettonica e urbanistica, sotto il governatorato di Mario Lago (1923-1936), giolittiano di formazione, che fu capace di armonizzare la presenza italiana con le comunità greca, turca ed ebraica sefardita, le quali concorrevano alla delicata miscela culturale dell’Isola delle Rose – rodon è rosa in greco antico – che la Seconda Guerra Mondiale ha distrutto per sempre.
Nel 1936 però, volle farsi nominare Governatore di Rodi - e Mussolini fu ben lieto di assecondarlo per toglierselo dai piedi - Cesare Maria De Vecchi (Casal Monferrato 1884-Roma 1959), conte di Val Cismon per meriti militari, già Ras di Torino e Governatore della Somalia.
Retorico, megalomane, autoritario ed intollerante, laddove il suo predecessore era stato pratico, prudente, razionale e liberale, il nuovo governatore elesse sua maggiore impresa la ricostruzione del Castello dei Cavalieri di Rodi. Forse tempio greco, poi fortezza bizantina, il castello fu costruito dall’Ordine dei Cavalieri di S. Giovanni che dovettero abbandonare l’isola ai Turchi nel 1522. Nel 1856 era stato distrutto dall’esplosione accidentale di una polveriera e adattato a carcere. Mario Lago avrebbe voluto restaurarlo per valorizzarlo come “superbo rudere”, De Vecchi invece volle ricostruirlo completamente, ottenendo un castello “nuovo”, quasi un fondale operistico o una scenografia cinematografica in cui ci si sorprende a toccare vera pietra e non cartone. L’ambiziosa opera, portata a termine in soli tre anni, costò 30 milioni di lire d’allora. Cinquecento tagliapietra e scalpellini furono fatti venire dalla Puglia, squadre di mosaicisti da Firenze e da Venezia per restaurare e mettere in opera nei pavimenti gli antichi mosaici trovati negli scavi archeologici di Coo. L’effetto è maestoso e straniante, gli inglesi che occuparono l’isola fino al ’47 lo descrissero come “a facist Folly”, oggi è il monumento più visitato di tutta Rodi.
Gli affreschi di Gaudenzi, documentati da foto d’epoca e da un cinegiornale Luce, si trovavano al secondo piano, in sale che oggi sono escluse dalla visita. In tempi recenti nessuno li ha visti. A molti che hanno cercato di visitare quelle sale è stato opposto un inspiegabile rifiuto. Chi dice che sono stati scalpellati, altri che siano stati portati via dai tedeschi (!). Un testimone attendibile, il figlio di Pietro Gaudenzi, Jacopo, racconta di essere stato in quelle sale che egli, bambino di dieci anni, vide affrescare dal padre, ma di averle trovate, dietro cortinaggi di stoffa, pitturate di bianco.
E’ un impegno che la Galleria del Laocoonte – che proprio dal famoso capolavoro di antichi scultori di Rodi ha tratto il nome – prende a cuore, cercare di sapere la verità sul destino così segreto di questi affreschi, e
se fosse vero che essi siano soltanto scialbati sotto una mano di bianco, far di tutto per promuovere un restauro che li riporti alla luce dei giorni nostri.
Intanto presentiamo i cartoni a pastello, straordinari per delicatezza di tocco, che servirono alla realizzazione di essi. Sono figure prese dalla vita, nelle umili occupazioni quotidiane nelle strade e nelle campagne di Anticoli Corrado. Guardando la mola di Anticoli, la Semina, la mietitura, le donne che portano il pane su vassoi o allineato su una tavola portata in equilibrio sul capo, la splendida donna con la pagnotta infiorata, o la giovane con un fascio di spighe, non si può certo non ricordare la retorica della “Battaglia del Grano” mussoliniana, ma le figure di Gaudenzi – che pure sul tema vincerà anche, con un suo trittico dipinto, echeggiante gli affreschi di Rodi, il premio Cremona nel 1940 – sembrano imperturbabili, nella fissità delle loro consuetudini millenarie ed immutabili, all’enfasi trionfalistica del momento.
Ancora più atemporali sono i cartoni e le figure della sala della famiglia: una Visitazione e la grande Natività. Lo sposalizio, o meglio il banchetto di nozze è invece il soggetto di una grande tavola dipinta ad olio che però potremmo definire piccolo bozzetto, se pensiamo al precedente “Sposalizio”, di cui il nostro è un eco, che Gaudenzi presentò alla biennale di Venezia del 1932: era alto due metri e mezzo e lungo sette metri. Fu pagato 130mila lire e acquistato dal Senatore Borletti di Milano. Oggi non sappiamo che fine abbia fatto. Di quest’opera capitale nella poetica di Gaudenzi in galleria sarà mostrata su uno schermo la documentazione fotografica, in scatti d’epoca in bianco e nero. Tanto l’aveva cara che egli la replicherà, e non certo per pigrizia, in una delle pareti della Sala della famiglia a Rodi. Nozze di Cana senza miracolo, o pranzo nuziale di Maria e Giuseppe se avessero potuto permetterselo, Gaudenzi presenta la festa con la ieraticità di una storia sacra. Il fatto è che ci mette del suo: sposatosi nel 1909 con la bella modella anticolana Candida Toppi, ne farà, assieme ai quattro figli avuti da lei, il soggetto costante della sua pittura, allora tardo impressionistica. Due figli morirono piccoli e l’epidemia di spagnola portò via Candida. Si risposò con Augusta, sorella della moglie, venuta a Milano per badare ai nipoti orfani. Da lei ebbe Maria Candida e Jacopo. Non per maniera Gaudenzi è pittore della maternità e degli affetti familiari. Si ha la forte impressione che egli abbia trovato nella pittura e saputo trasmetterne la consapevolezza a chi la guarda ciò che è impossibile: che vi sia un luogo dove i vivi e i morti che si sono amati possano convivere senza stupore, ma officiando i gesti della vita di tutti i giorni.
Schivo, taciturno creatore di un mondo e di un umanità incantata in cui i modelli contadini, da lui ritratti dal vero nel paese di Anticoli Corrado, che egli elesse ad Arcadia personale, sono trasfigurati per grazia poetica, tanto che l’umano e il divino si confondano: così in Gaudenzi una Sacra Famiglia diventa una famiglia, una Visitazione una visita tra comari, uno Sposalizio un semplice banchetto di nozze, senza che il senso del sacro venga meno, ma senza che questo tradisca il senso del vero. E’ la bellezza dell’umiltà della leggenda cristiana, tante volte meravigliosamente vestita in pittura, che Gaudenzi ha saputo riportare come declinazione purista del Novecento italiano. Con semplicità e finezza sincere.